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Da che io ricordi mi è sempre piaciuto inventare storie. A fumetti, con i giocattoli, con i giochi di ruolo, con le lego, a voce, immaginate. Le inventavo mentre giocavo con mio fratello o con gli amici. Me le immaginavo come grandi avventure di scoperta e esplorazione. Mi ricordo che una sorta di primo libro fu un quaderno a righe con protagonisti i miei compagni delle medie: una sorta di romanzo cavalleresco con nomi improbabili e storie di armi e amori. Trovare un modo per metterle nero su bianco in maniera più programmatica e meno casuale era solo una questione di tempo.

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Assolutamente no. Non in senso diretto ovviamente: nessuno legge più niente e io non sono Hemingway. Però credo che se anche solo per dieci minuti chi legge una mia storia si distrae o si diverte, allora il mio l’ho fatto. Poi la scrittura, come nel caso di pubblicazioni a scopo benefico hanno invece un impatto anche minimo sulla vita degli altri: sia come sensibilizzazione a un tema, sia come apporto economico a quella causa.

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Per me il confine è un segno a penna arbitrario. Il confine non esiste. Nostra patria è il mondo intero.

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